domenica 28 novembre 2010

Quell'intruso come sintomo di una gestione da Far West

di Paolo Rumiz


LA COSA che inquieta non è il veleno. È che la geografia dell'arsenico (cioè degli investimenti non fatti per eliminarlo) corrisponde a quella della privatizzazione più spinta del sistema acqua. Non esiste dimostrazione più perfetta del nesso tra le due cose. S'era sempre detto, non a torto, che solo dai privati (e quindi da un aumento delle tariffe) sarebbero potuti uscire i capitali necessari ad ammodernare una rete-colabrodo che, per povertà dello Stato, non registra investimenti significativi da un ventennio.
La realtà dimostra il contrario: dalle Alpi alla Sicilia l'aumento delle tariffe non si è trasformato quasi mai in adeguamenti della rete, si è limitato a rimpinguare i profitti. Una privatizzazione all'italiana, compiuta nel Far West delle regole. Al 90% l'acqua all'arsenico si concentra in Lazio e in Toscana, le regioni a più antica privatizzazione idrica.
La società di gestione è la stessa per le due regioni, si chiama Acea e comprende al suo interno la Suez Lyonnaise des Eaux, il gruppo Caltagirone, la banca svizzera Pictet e (soprattutto in Toscana) i Monte dei Paschi di Siena.
Il pubblico mantiene la maggioranza azionaria, ma l'amministratore delegato è espresso per statuto dai privati, i quali si riservano il diritto di veto su decisioni anche maggioritarie del consiglio. Dal momento del salto al privato, le tariffe in Toscana e in Lazio sono aumentate circa del 50%, con un rincaro annuo medio del 5; ma non si sono visti ammodernamenti significativi. In certi casi la qualità del servizio è diminuita, con il Lazio che ha raggiunto il 30% delle perdite dal sistema. E qui viene il discorso dell'arsenico: si è continuato con la richiesta di deroghe non per mettersi in regola con l'Europa, depurare i pozzi e tutelare la salute pubblica, ma solo per prendere tempo. E ciò nonostante i costi della depurazione siano relativamente bassi.
In Lombardia, invece, si è lavorato, e non con l'aiuto di capitali privati ma dei fondi regionali. Anche qui l'equazione si conferma: ad allinearsi agli standard sono stati gli enti che hanno conservato la gestione pubblica, come il Lodigiano e Pavia, dove già da un anno sull'arsenico non è stato necessario chiedere deroghe. La situazione rimane difficile nel Mantovano, nel quale la privatizzazione è stata spinta più avanti con una legge tutta lombarda, peraltro cassata dalla corte costituzionale, che prevede la scissione del servizio tra gestore privato ed erogatore pubblico. L'arsenico, insomma, non come pericolo, ma come spia dell'imbroglio.
Che qualcosa non funzionasse l'hanno capito da tempo i francesi. A Parigi l'acqua era stata ceduta ai privati e ci si è accorti che gli investimenti annunciati da questi erano spesso specchietti per le allodole. Per rimediare, la capitale francese è ritornata alla gestione pubblica del più strategico dei beni nazionali. Il problema di un giusto equilibrio tra capitali privati e controllo pubblico ora va affrontato anche in Italia, da quando la legge Tremonti ha imposto un passaggio alla gestione privata consorziale (per ambiti territoriali) anche alle reti ben funzionanti e con bilanci in attivo.
Un'emergenza analoga a quella dell'arsenico si registrò 25 anni fa in Lombardia con l'inquinamento da atrazina, pesticida del mais. La regione fece chiudere i pozzi avvelenati, provvide a un immediato rifornimento con autobotti e chiese una deroga all'Ue per dare subito inizio ai lavori di bonifica. Ma erano altri tempi. In un quarto di secolo tutto è cambiato in Italia, anche la considerazione della pubblica salute.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/11/25/quellintruso-come-sintomo-di-una-gestione-da.html

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